Ti ho amato dal primo istante...

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venerdì 31 gennaio 2014

L'OMBRELLO



Filastrocca per quando piove:


chi sta in casa non si muove,
io che in casa divento tetro
esco e il tetto mi porto dietro...

un piccolo tetto di stoffa nera,
con tante stecche messe a raggera.
o che fenomeno simpatico
vedere un tetto con il manico!
così me ne vado bello bello
fischiettando sotto l'ombrello.

(Gianni Rodari)

martedì 28 gennaio 2014

I tre giorni della merla

Brrr.... che freddo!!! Da domani inizia il primo dei tre giorni più freddi di tutto l'anno, che come da tradizione sono detti "i tre giorni della merla".

Tanto, tanto tempo fa a Milano ci fu un inverno molto rigido.
La neve scendeva dal cielo e copriva tutta la città, le strade, i giardini.
Sotto la grondaia di un palazzo in Porta Nuova c'era un nido di una famigliola di merli, che a quel tempo avevano le piume bianche come la neve. C'era la mamma merla, il papà merlo e tre piccoli uccellini, nati dopo l'estate.
La famigliola soffriva il freddo e stentava a trovare qualche briciola di pane per sfamarsi, perché le poche briciole che cadevano in terra dalle tavole degli uomini venivano subito ricoperte dalla neve che scendeva dal cielo.
Dopo qualche giorno il papà merlo prese una decisione e disse alla moglie:
"Qui non si trova nulla da mangiare, se continua così moriremo tutti di fame e di freddo. Ho un'idea, ti aiuterò a spostare il nido sul tetto del palazzo, a fianco a quel camino così mentre aspettate il mio ritorno non avrete freddo. Io parto e vado a cercare il cibo dove la neve non è ancora arrivata".
E così fu fatto: il nido fu messo vicino al camino e il papà partì. La mamma e i piccoli uccellini stavano tutto il giorno nel nido scaldandosi tra loro e anche grazie al fumo che usciva tutto il giorno dal camino.
Dopo tre giorni il papà tornò a casa e quasi non riuscì più a riconoscere la sua famiglia! Il fumo nero che usciva dal camino aveva colorato di nero tutte le piume degli uccellini!
Per fortuna da quel giorno l'inverno divenne meno rigido e i merli riuscirono a trovare cibo sufficiente per arrivare alla primavera. Da quel giorno però tutti i merli nascono con le piume nere e per ricordare la famigliola di merli bianchi divenuti neri gli ultimi tre giorni del mese di gennaio sono detti: i tre giorni della merla.

domenica 26 gennaio 2014

IPPOLITA la bambina perfetta

Ieri pomeriggio a Librogiocando a Monza io e pastrugno abbiamo trovato questa storia, di Giuseppe Caliceti:

IPPOLITA la bambina perfetta.




C’era una volta una bambina che si chiamava Ippolita e che cercava degli amici con cui giocare …
Un giorno Ippolita arrivò in una città dove era in corso una gara di aquiloni. Vinceva chi faceva volare il suo aquilone più in alto.
Anche Ippolita fece volare il suo, ma la gara fu vinta da un bambino con gli occhi a mandorla: il suo aquilone a forma di drago volò più in alto e più a lungo degli altri ed era anche il più bello. Ippolita pensò: «Non è divertente giocare con bambini dagli occhi a mandorla perché tanto vincono sempre loro!». E così decise di andarsene via.
Cammina cammina Ippolita arrivò in un quartiere abitato solo da bambini con gli occhi tondi che correvano sui pattini. Ippolita cominciò a correre sui pattini insieme a loro.
Era bravissima, ma una bambina coi capelli ricci e neri si mise a fare giravolte su se stessa, come una trottola. Era davvero più veloce e brava di lei e tutti la ammiravano.
«Sì, però ha i capelli ricci e neri e io preferisco giocare con bambini che hanno i capelli lisci e biondi come i miei» pensò.
E così si tolse i pattini e andò via.
Cammina cammina Ippolita arrivò in un parco pieno di bambini con gli occhi tondi e i capelli biondi e lisci. Giocavano con delle palle colorate e tra di loro c’era un bambino che lei trovò bellissimo.
Con il cuore che le batteva veloce Ippolita gli si avvicinò.
Ma lui non le rivolse neppure uno sguardo e continuò a giocare con le sue amiche e i suoi amici.
«Non capisco come può trovarsi bene con loro, che sono bassi e grassottelli» pensò Ippolita.
Lei era snella e, nonostante fosse ancora una bambina, si sentiva molto alta.
Allora si accorse che non ci teneva più a giocare con il bambino bellissimo né tantomeno con i suoi amici. Così se ne andò dal parco.
Cammina cammina Ippolita arrivò in una piazza piena di bambini alti e snelli, con gli occhi tondi e i capelli biondi e lisci. Saltavano con la corda.
Ippolita si unì a loro, ma spesso sbagliava. No, non era certo brava come la bambina con i sandali: una vera campionessa! Poteva fare più di cento salti senza sbagliare mai. Più la guardava e più Ippolita la invidiava, finché gettò per terra la corda e se ne andò via.
«Dopotutto, meglio giocare con chi, come me, porta scarpe da tennis» si disse.
Cammina cammina Ippolita arrivò in un cortile ai piedi di un grattacielo. Tanti bambini alti e snelli, con gli occhi tondi, i capelli biondi e lisci e che portavano scarpe da tennis correvano attorno al grattacielo. Facevano delle gare.
Ippolita cominciò a correre insieme a loro. Correre le piaceva, le era sempre piaciuto. Non era la più lenta, ma certo non era la più veloce.
Ad arrivare primi al traguardo erano sempre un paio di bambini.
Dopo cinque gare Ippolita si stancò: «I maschi vincono sempre! E’ più divertente giocare solo tra bambine» pensò. E così si allontanò.
Cammina cammina Ippolita salì fino al decimo piano del grattacielo dove alcune bambine, proprio come piacevano a lei, facevano musica in una stanza. Ognuna di loro suonava uno strumento diverso. La loro musica era così allegra che Ippolita iniziò a ballare.
Finché una bambina dagli occhi blu le diede un tamburello coi sonagli. «Così puoi suonare anche tu» le disse.
Ippolita la ringraziò, ma non prese il tamburello: non osava suonarlo.
«Non voglio fare una brutta figura, soprattutto davanti a una bambina che non ha gli occhi verdi come me» pensò.
Così decise di salire a vedere se c’erano bambine più simpatiche su un piano più alto.
Al dodicesimo piano Ippolita vide sei bambine sedute davanti a sei computer. Erano tutte alte e snelle, con i capelli biondi e lisci, gli occhi tondi e verdi e con le scarpe da tennis ai piedi.
«A che cosa giocate? Posso giocare con voi?» chiese loro Ippolita.
Nessuna delle sei bambine le rispose.
«Sono sorde o sono semplicemente delle maleducate» si disse Ippolita.
Poi pensò che comunque delle bambine senza un orologio al polso destro non sarebbero mai potute essere sue amiche.
Perché?
Perché naturalmente Ippolita portava il suo al polso destro.
Al ventiquattresimo piano Ippolita entrò in una stanza dove c’erano solo tre bambine sedute a un tavolo.
Tutte e tre le assomigliavano molto e portavano anche loro un orologio al polso destro.
Giocavano a tirare i due dadi che avevano in mano. Chi faceva saltar fuori il numero più alto era la vincitrice.
Appena videro Ippolita le bambine la invitarono a giocare con loro. La prima volta vinse Ippolita. La seconda volta no.
Neppure la terza.
Neppure la quarta.
Neppure la quinta.
Neppure la sesta.
Mentre stava tirando i dadi per la settima volta, Ippolita decise che quel gioco non le piaceva.
«E poi quelle bambine non portano nemmeno gli occhiali!» si disse.
Così si alzò e se ne andò.
Al trentaseiesimo piano del grattacielo Ippolita entrò in una piccola stanza e vide due bambine identiche, senz’altro due gemelle, che giocavano a ping-pong.
Era difficile giocare a ping-pong in una stanza così piccola, ma loro ci riuscivano ugualmente.
Ippolita aspettò che la partita terminasse per sapere come si chiamavano, ma la partita non terminava mai.
Allora Ippolita se ne andò pensando che comunque non si sarebbe trovata bene con due bambine che non avevano, come lei, almeno tre unghie della mano sinistra pitturate di verde.
Quattro piani più su Ippolita trovò una porticina alta più o meno come una mezza finestra. Sopra alla porticina c’era scritto:
Club delle bambine
alte e snelle
con le scarpe da tennis ai piedi
un orologio al polso destro
gli occhi tondi e verdi
gli occhiali
i capelli biondi e lisci
e che hanno tre unghie
della mano sinistra
pitturate di verde

«Ecco il posto giusto per me!» esclamò Ippolita. «Finalmente non sarò più sola! Finalmente troverò delle amiche simpatiche e potrò vivere felice insieme a loro!».
Ippolita si chinò,
aprì la porta,
si mise a quattro zampe,
entrò.
Si accorse che la stanzetta era così piccola che lì dentro c’era posto solo per lei.
Sul muro trovò uno specchio:
lo sollevò,
ci guardò dentro,
vide la sua faccia di bambina triste
che la stava guardando
e scoppiò a piangere.
In fondo a quella stanzetta
c’era una finestra
piccola piccola.
Ippolita si sdraiò
sul pavimento,
ci infilò dentro la testa
e vide dall’alto tutta la città,
con tanti quartieri, parchi
e cortili.
E ovunque c’erano bambine
e bambini con la pelle
e i capelli di vari colori.
Bambine e bambini più alti
e più bassi e più grassi di lei.
E vestiti tutti in modo diverso.
Bambine e bambini
che giocavano
e che avevano tutti,
ma proprio tutti,
l’aria di divertirsi.
Ippolita si asciugò le lacrime
e …
… corse giù in strada a giocare insieme a loro. E si accorse che era finalmente felice.

martedì 21 gennaio 2014

Clarita dalle belle dita

Una storia ascoltata dal mio pastrugno all'asilo poco prima delle festività natalizie. Una storia letta dalla maestra, inerente l'argomento affrontato in questo anno scolastico 2013-2014: "mondo ...da abbracciare". La classe di mio figlio è volata con la fantasia in Brasile...

In una delle poverissime favelas, le baracche che guardano la grande città di Rio, abitava Felisiana con sei figlioli da far crescere. Un giorno, nel canale antistante la favela, spuntò il muso di un alligatore. Non vi dico lo spavento della donna: - Questo si mangia tutti e sei i miei maschietti! - prese la scopa e la ficcò nelle fauci del rettile per tenergliele aperte. Mentre chiedeva aiuto, però, vide l'alligatore piangere con lacrime grosse come noci.
Felisiana si commosse e gli tolse la scopa dalle fauci. L'alligatore disse: - Grazie, sarai compensata per la tua generosità. Io vedo il tuo futuro: avrai una bambina con le mani di fata. Non fargliele mai sciupare perché saranno la sua fortuna. Se mai avrai bisogno di me, vieni allo stagno Pantanello e chiedi di Palabro, mi conoscono tutti perché parlo con gli uomini. Arrivederci e auguri per la bambina, la chiamerai Clarita dalle belle dita! - e l'alligatore sparì sott'acqua.
Un anno dopo, mentre la città di Rio festeggiava il suo chiassoso carnevale, nacque Clarita dalle belle dita. Le sue mani erano così fini e delicate che i fratellini non osavano nemmeno toccarle.
Gli anni passarono e, appena Clarita fu capace di tenere in mano l'ago, il filo e il ditale, la mamma la mise in una scuola per ricamatrici: - Un giorno avrai la più grande sartoria di Rio, tutti vorranno farsi disegnare il costume di carnevale da te, ma ci vuole pazienza, costanza e sacrificio per imparare bene. Le tue belle mani faranno prodigi! 
Clarita arrossiva, lavorava e sperava. Ma un brutto giorno la mamma si ammalò. Quando sentì che la sua vita terrena era terminata, Felisiana chiamò la figlia e le raccomandò: - Risparmia le tue mani perché saranno la tua ricchezza. Me l'ha detto l'alligatore Palabro. Se hai bisogno di aiuto, vai a cercarlo allo stagno Pantanello.
La mamma fu messa a dormire il sonno eterno sotto una croce bianca e tutti e sette i figli la piansero disperatamente. Ma il babbo sentì subito il peso della famiglia; lavorava tutto il giorno e non poteva accudire ai figli. Dopo qualche tempo disse loro: - Ragazzi, vi ho portato una nuova mamma che avrà cura di voi.
Muti e stupiti, essi videro sistemarsi nella favela una bella ragazza bruna che cantava bene e ballava meglio.
Figurarsi se aveva voglia di star lì nella baracca a lavorare per sette ragazzi! Prese in disparte Clarita e le disse: - Io non sono venuta qui per farvi da serva, devo andare tutti i giorni alla scuola di ballo. Farò la spesa e amministrerò i pochi soldi di vostro padre. Ma tu farai i lavori pesanti e non m'importa nulla se le tue mani prodigiose si sciuperanno. Qui non c'è bisogno di ricami, ma di fatica. Su questi patti sono d'accordo con tuo padre; se non sei d'accordo, puoi andartene.
E dove? Clarita si ricordò della voce della mamma: - Non sciupare mai le tue mani, giuramelo!
Allora prese le sue poche cose, andò allo stagno Pantanello e chiamò a gran voce Palabro. Gli alligatori si passarono il richiamo e finalmente lo trovarono che russava all'ombra, sull'erba fresca: - C'è una signorina che ti cerca!
Confuso, l'alligatore la raggiunse e la riconobbe dalle splendide mani. Sapeva cos'era successo e affidò la fanciulla a Fides che la tenne come una figlia. Clarita, in compagnia di Fides e di suo figlio Eros, conobbe tutti i fiori della laguna, le piante, i giunchi, i muschi di Pantanello e imparò a ricamarli. - Perché non portiamo questi tappeti al mercato di Rio per venderli? Con i soldini guadagnati ci faremo una bella sartoria.
L'idea di Clarita piacque; i viaggi a Rio le consentirono di guadagnare, di rivedere i fratelli e di spiare tra i costumi che si preparavano per la sfilata di carnevale.
- Alla prossima sfilata, sbalordirò tutta Rio!
Clarita chiese aiuto a tutti i suoi amici animali con questa raccomandazione: - Soprattutto comportatevi bene, come se foste davvero uomini e donne!
Confezionò per sé, per Fides e per Eros dei vestiti ricamati di fiori tropicali, quali non si erano mai visti.
Ebbe l'ultimo posto nella sfilata di carnevale, ma era proprio ciò che voleva. Il pubblico si spellava le mani quando passò il suo carro dalle ruote di anaconda.
Sfilarono dietro a lei sessanta pantere in fila per tre, con la parrucca rossa, la gonnella di paglia e la coda che si agitava e faceva cri cri. Infatti in ogni coda era legata una gabbietta con i grilli. Seguirono sessanta fenicotteri rosa, in fila per tre, con un grande cappello di piume legato al collo con un papillon. Le zampe suonavano per i fitti braccialetti di conchiglie.
Poi seguì un urlo oceanico che esprimeva paura e meraviglia: avanzavano sessanta alligatori, in fila per tre, con la paglietta legata sotto il mascellone e il dorso coperto di gabbiani bianchi.
- Sembrano veri! - dicevano gli spettatori, maschere così non ne abbiamo mai viste!
Nessuno si accorse che erano animali veri, nemmeno la giuria che diede a Clarita il primo premio.
Il sogno di mamma Felisiana si realizzò: Clarita in breve ebbe la più grande e ricca sartoria di Rio, ma disse che aveva perduto i modelli delle pantere, dei fenicotteri e degli alligatori.
- Peccato, sembravano veri! - dice ancora la gente.

lunedì 20 gennaio 2014

Lo specchio racconta: Biancaneve.



«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
Certo,bella era bella, non c’è niente da dire, ma sapeste quanto era antipatica!
Eppure la risposta, ormai monotona, da anni era sempre la stessa:
«Sei tu, regina, più bella di tutte, le altre, al confronto, son racchie e son brutte!»
Allora rideva a bocca spalancata e il suo sorriso era il più bello di tutti, i suoi denti i più bianchi di tutti, i suoi occhi i più vividi e scuri.
Ed ero io a renderla così felice. Non che lo facessi apposta, ero obbligato a dire la verità, se no ci avrei perso la faccia … La faccia? A pensarci bene, che faccia avrei mai perso, io, che di facce ne ho milioni? Io ho faccia di cigno, se davanti a me passa un cigno, e di leone, se passa un leone. Ho persino faccia d’albero e di cielo, volendo, e faccia di vecchio o di bambino, ma specialmente, per anni, ho avuto faccia di regina, perché lei non faceva che specchiarsi e io non potevo far altro che rifletterla.
Sono uno specchio, non l’avevate ancora capito? Ma non uno specchio qualunque, io sono uno specchio magico.
Prima ero un normale specchio di un mercante e forse, prima o poi, mi avrebbe venduto, come i mobili e le altre suppellettili che commerciava. Ma un giorno ha visto lei e non ha capito più niente.
Bella era bella, non c’è da dire, ma sapeste quanto era … ah sì, ve l’ho già detto! Era antipatica.
Così, per conquistare il suo cuore, il mercante, che si era messo in testa di sposarla, mi ha portato da un mago che mi ha reso fatato. Poi mi ha regalato a quella bellissima ragazza che mentre si specchiava, lusingata, ha chiesto:
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
E io, che potevo solo dire la verità, ho risposto:
«Sei tu, fanciulla, più bella di tutte, le altre, al confronto, son racchie e son brutte!»
Avreste dovuto vedere che faccia ha fatto, a sentire che parlavo. Io l’ho vista, naturalmente, anzi, l’ho riflessa. Ma ancor più stupita e soddisfatta è rimasta per la mia risposta, e da quel momento … si è montata la testa.
A sposare il mercante, che le aveva fatto quel prezioso dono, non ci ha pensato neppure un attimo.
«Se son così bella,» si è detta «mi vorranno anche conti e marchesi, duchi e granduchi e – perché no? – pure il re in persona potrebbe desiderarmi come sposa.»
Il re veramente una sposa ce l’aveva già, amata da lui e da tutto il popolo del suo regno. Per giunta aspettava un erede, che sarebbe nato a giorni.
Quando nacque, non si trattava di un maschio, ma di una splendida bambina, con la boccuccia rossa come il sangue, i capelli color dell’ebano e la pelle bianca come la neve. Per questo venne chiamata Boccarossa … No, scusate, mi sto sbagliando … la chiamarono Biancaneve.
Purtroppo però sua madre, la regina, morì proprio nel darla alla luce.
La mia padrona, che nel frattempo aveva rifiutato di maritarsi anche con duchi e conti, perché ogni giorno si faceva più orgogliosa ed esigente, mi si è piazzata davanti e mi ha chiesto come al solito:
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
E io, anche se, ve l’ho detto, mi era proprio antipatica, non potuto fare a meno di risponderle come al solito:
«Sei tu, fanciulla, più bella di tutte, le altre, al confronto, son racchie e son brutte!»
Lei ha sorriso, piena di superbia, poi ha chiesto ancora:
«E dimmi, specchio, secondo te, posso aspirare a esser moglie di re?»
Mio malgrado ho dovuto dirle:
«Se vi vedesse il nostro sovrano, vi chiederebbe senz’altro la mano!»
Così ha trovato il modo di farsi vedere dal re e, in men che non si dica, la mia padrona è diventata regina e io sono diventato lo specchio magico di una regina.
Per anni le ho rimandato la sua splendida immagine, confermandole sempre che era lei la più bella del regno. Pareva anzi che la sua bellezza aumentasse ogni giorno, ma insieme aumentava anche la sua superbia e lei si occupava solo di se stessa, di vestirsi elegantemente, di imbellettarsi e, naturalmente, di rimirarsi.
Invece della piccola Biancaneve, a cui avrebbe dovuto far da madre, non si occupava affatto. Ma la bambina, anche se trascurata, cresceva con un bel carattere, dolce e felice, cantava come un usignolo e ogni giorno si faceva più bella.
E un giorno, quando la regina come suo solito mi ha chiesto:
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
La mia risposta è stata:
«Bella sei bella, non c’è che dire, ma tu lo sai che non posso mentire e Biancaneve, dalla chioma corvina, è molto più bella di te, o mia regina!»
Per questa risposta ho rischiato di morire, cioè di andare in mille pezzi, perché mi ha scagliato addosso una spazzola con l’impugnatura d’argento.
E’ diventata verde di rabbia, poi viola di furore e non era più molto bella a vedersi.
Da quel giorno non si è più data pace: una ragazzina, la sua figlia adottiva, era più bella di lei!
L’invidia la rodeva come un tarlo.
Così, una mattina chiamò un suo servo, un cacciatore, e gli ordinò: «Conduci Biancaneve nel bosco e lì uccidila. Poi, come prova, portami il suo cuore!»
L’uomo fece come gli era stato detto, ma poi, nel folto del bosco, non ebbe il coraggio di uccidere una giovinetta così bella e innocente.
«Fuggi, la regina ti vuole morta, ma io le porterò il cuore di un cervo al posto tuo» disse allora a Biancaneve.
La poverina, che non immaginava di essere così odiata, fuggì in lacrime, decisa a non fare mai più ritorno al castello.
Come faccio a saperlo? Bé, sono o non sono uno specchio fatato? Ma non voglio vantarmi e diventar superbo come la regina. E quindi vi dirò che, se conosco così bene la storia di Biancaneve, è solo per l’incantesimo di un mago: so chi è la più bella, vedo sempre dove si trova e devo dire sempre la verità. E’ così che sono stato programmato: la mia è una vita dedicata alla bellezza e alla verità.
Ma torniamo a Biancaneve che verso sera era arrivata, stremata, a una casetta nel folto del bosco e, trovando la porta aperta, vi era entrata per cercarvi un rifugio.
Era questa la casetta di sette nani che tutto il giorno lavoravano in miniera e vi facevano ritorno solo la sera. Biancaneve trovò la tavola apparecchiata con sette piattini, ogni piattino col suo cucchiaino, e sette coltellini, sette forchettone e sette bicchierini. Lungo una parete, l’uno accanto all’altro, c’erano sette lettini, coperti di candide lenzuola. Biancaneve aveva tanta fame e tanta sete che mangiò un po’ da ogni piattino e bevve un goccio da ogni bicchierino, perché non voleva portar via tutto a uno solo. Poi era così stanca che si sdraiò in un lettino, ma era troppo stretto, ne provò un altro, ma era troppo corto. Allora li provò tutti, finché il settimo fu quello giusto e lì si coricò e si addormentò.
Quando i nani col buio fecero ritorno, si accorsero che qualcuno era entrato in casa. Accesero le loro sette candeline e il nano più vecchio esclamò: «Guardate, qualcuno ha mangiato dai nostri piattini!»
«E ha pure bevuto dai nostri bicchierini!» disse un altro.
«Guardate, le lenzuola di ogni letto sono un po’ spiegazzate!» notò il più giovane, indirizzando la luce della candela verso la parete dove c’erano in fila tutti i lettini.
Poi, illuminando l’ultimo giaciglio, che era proprio il suo, vide che lì dormiva una fanciulla meravigliosa.
«Oh!» fece il nano e «Oh, oh!» fecero gli altri sei quando li chiamò a vederla.
«Com’è bella!» esclamò il nano più vecchio.
«Che viso dolce!» disse un altro.
«Che aria stanca!» notò il più giovane.
«Lasciamola dormire, io dormirò in poltrona, e domattina scopriremo chi è.»
Al mattino, quando Biancaneve aprì gli occhi, quale fu la sua sorpresa nel vedere sette nanetti chini su di lei a vegliare il suo sonno con sette sorrisi affettuosi e sette barbe folte.
«Da dove vieni, bambina?» chiese il nano più vecchio.
«Come sei giunta qui?» domandò il più giovane.
E Biancaneve raccontò ai nani la sua triste storia.
«Puoi restare con noi finché vorrai» disse allora il nano più vecchio. «In cambio ci terrai pulita la casa e ci farai da mangiare» propose un altro.
«Però, mi raccomando, non aprire mai a nessuno!» le consigliò il più giovane, perché i sette nani temevano che la mia padrona, la perfida regina, potesse scoprire che Biancaneve fosse ancora viva e la venisse a cercare.
Astuti e previdenti, quei nani, non c’è che dire! Anche perché la regina non ci ha messo molto a scoprire che Biancaneve era ancora viva.
Mi dispiace doverlo dire, ma è stato per colpa mia. Involontaria, però, lo giuro! Ve l’ho già detto, non posso farci niente, sono obbligato a dire la verità.
La regina, credendo che il cuore del cervo fosse quello di Biancaneve, aveva esultato. Poi aveva raccontato al re che la giovane figlia si era avventurata incautamente nel bosco ed era stata sbranata da una belva. Quindi aveva finto di piangerne la morte e per un po’ era rimasta soddisfatta e tranquilla. Ma non poteva resistere molto tempo senza specchiarsi e senza pormi la solita domanda, perché era sempre tormentata dall’idea che qualcuna potesse diventare più bella di lei.
Così, un giorno, dopo essersi pettinata e imbellettata davanti a me, mi ha chiesto:
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
Ho cercato di prender tempo. Ho finto persino un attacco di tosse, ma poi la verità mi è venuta fuori da sola, come l’acqua che sgorga da una fonte:
«In questo castello, o mia regina, sei certo tu la più carina, ma nella casa dei nani, nel bosco, una più bella di te io conosco. E poiché il vero dire si deve, quella fanciulla è Biancaneve!»
La regina ha cacciato un urlo così acuto da mandare in pezzi i cristalli. Ho temuto per la mia incolumità. Poi, come una furia, si è strappata i vestiti eleganti e si è arruffata i capelli, sfregandosi via dalla faccia rossetto e trucco. Quindi si è vestita e camuffata come una vecchia merciaia.
Nessuno avrebbe potuto riconoscere in lei la bella regina, neppure io che la riflettevo ogni giorno.
Con un canestro pieno di cinture, stringhe e nastri, si recò alla casa dei sette nani e lì bussò dicendo: «Roba bella! Chi compra, chi compra?»
Biancaneve, che non vedeva mai nessuno, sempre impegnata a pulire e a far da mangiare, si affacciò alla finestra e subito desiderò un bel nastro rosso da usare come cintura. Così si scordò la raccomandazione dei nani e aprì la porta alla vecchia che pareva un’innocua merciaia.
«Lascia che ti aiuti io, piccina!» disse la mia perfida padrona, travestita da vecchia merciaia, e le passò in vita il nastro rosso. Poi strinse così forte da far cadere in terra Biancaneve, come morta. Quindi tornò soddisfatta al castello.
Quando i sette nani tornarono a casa trovarono Biancaneve riversa.
«E’ morta» si disperò il nano più vecchio.
«Guardate quel nastro rosso com’è stretto!» notò un altro.
«Sleghiamolo, presto! Forse è solo svenuta!» esclamò il più giovane.
Slegato il nastro, le guance di Biancaneve ripresero colore e la bocca esalò un respiro: per fortuna era ancora viva.
E per sfortuna sono stato nuovamente io a doverlo dire alla regina, quando ancora una volta mi ha chiesto:
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
«Ehm, veramente, non so come dire, ma non ti posso disobbedire, e quindi questa è la verità: Biancaneve splende di vita e beltà!»
Lei mi ha scagliato contro una boccetta di profumo, ma per fortuna non mi ha centrato. In cuor mio ho maledetto quel mago che mi costringeva a dir sempre la verità.
La regina si travestì ancora, prendendo l’aspetto di una vecchia diversa e, poiché se ne intendeva di stregoneria, preparò un pettine avvelenato.
Arrivata alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò:«Roba bella, vendo roba bella!»
Biancaneve questa volta non aprì la porta ma, affacciandosi alla finestra, disse: «Ho promesso di non lasciare entrare nessun estraneo, mi spiace.»
«Ma guardare ti sarà permesso» disse la vecchia, che altri non era che la regina. E così dicendo le mostrò il pettine avvelenato. Era un oggetto di fattura squisita e a Biancaneve piacque tanto che si decise ad aprire la porta. «Lascia che ti pettini!» si offrì allora la mia padrona e, non appena le passò il pettine tra i capelli, Biancaneve cadde a terra per effetto del veleno.
«E’ finita per te!» gridò esultando la perfida regina, e tornò trionfante al castello.
Ma anche questa volta i nani, sospettando della matrigna, cercarono e trovarono il pettine avvelenato. Appena l’ebbero tolto, Biancaneve tornò in sé. Lei raccontò quanto era accaduto e i sette nani le fecero nuovamente mille raccomandazioni.
La regina naturalmente ha scoperto ben presto che la bella Biancaneve era ancora viva e sempre più bella di lei. Come è venuta a saperlo? Bé, dài, lasciamo perdere … E va bene, tanto lo so che ormai ve lo immaginate. Sì, sono stato io a dirglielo e vi assicuro che mi è dispiaciuto molto e, come al solito, ho rischiato che mi distruggesse.
Furibonda, la regina si è travestita ancora, questa volta da vecchia contadina con un cesto di mele da vendere. Ma tra le mele la più bella, lucida e rossa, l’ha intinta per metà nel veleno.
Ho pensato che fosse il caso di dire la mia, almeno ci ho provato:
«Ma non ti pare una cosa eccessiva,
se pure lasci che lei sopravviva,
sarai pur sempre seconda in beltà
e pure lei crescerà e invecchierà!»
Questa volta mi ha fatto male davvero. Mi ha tirato un pettine d’osso, incrinandomi un angolino. Ho deciso di non aprire più bocca e la regina è uscita come una furia.
Stessa scena. «Vendo mele, belle mele! Chi compra, chi compra?»
E qui, una piccola critica a Biancaneve la devo fare: bella era bella, sì, ma anche un po’ sciocca, o per lo meno avventata. Non ditemi che anche voi ci sareste cascati una terza volta! Io sono sicuro che nessuno avrebbe accettato una mela rossa da una sconosciuta, dopo gli episodi del nastro e del pettine, e con tutte le raccomandazioni che avevano fatto i sette nani. Lei invece l’ha accettata. Un po’ ha esitato, però, devo riconoscerlo. Ma poi ha ceduto, quando ha visto che la contadina addentava metà della mela rossa dicendole: «Di cosa hai paura, piccola, che ti avveleni? Vedi, la mangio anch’io! E non dovrai neppure pagarla: te la regalo.»
Naturalmente la regina aveva dato un morso alla metà innocua, quella che non era stata intinta nel veleno.
Così Biancaneve, pur non aprendo la porta, tese la mano fuori dalla finestra, prese la mezza mela che le veniva offerta e l’addentò. Subito cadde a terra priva di vita, mentre la matrigna fuggiva ridendo selvaggiamente per la riuscita del suo misfatto.
Questa volta, quando i nani tornarono a casa, non poterono fare nulla, se non piangerne la morte.
«Niente, sul suo corpo non c’è niente! Questa volta è morta davvero!» pianse il nano più vecchio.
«Eppure è bella come prima, con la pelle candida e le labbra rosse!» sospirò un altro.
«Non possiamo mettere sotto terra una fanciulla così! Costruiamole una bara di cristallo» propose il più giovane. E così fecero.
Sulla bara trasparente, perché si potesse ammirare Biancaneve da ogni lato, misero il suo nome a lettere d’oro e scrissero che era figlia di re. Poi portarono la bara su un colle, al centro di una radura, e lì, a turno, la vegliarono per giorni e notti. Biancaneve rimase molto, molto tempo nella bara, ma sembrava che dormisse e non che fosse morta, perché aveva sempre la pelle bianca come la neve, le labbra rosse come il sangue e i capelli scuri color dell’ebano.
Un giorno, passò dalla radura un principe a cavallo e si fermò a rimirare, rapito, la fanciulla nella bara. Poi lesse il suo nome, scritto in lettere d’oro, e implorò il nano che la vegliava: «Ti prego, dammi questa bara e ti pagherò ciò che vuoi!»
Il nano disse che non avrebbe ceduto la bara con Biancaneve per tutto l’oro del mondo e ne parlò anche con gli altri nani, ma tutti e sette furono dello stesso parere.
Il principe però tornava ogni giorno a guardarla e non poteva più vivere senza vederla. Tanto disse e tanto fece che infine i nani decisero di regalargli la bara e lui promise che ogni giorno avrebbe vegliato sul sonno eterno di Biancaneve.
Mentre i suoi servi trasportavano la bara a spalla, accadde però che uno di loro inciampasse. La bara scivolò a terra e, per la scossa della caduta, il pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva inghiottito le uscì dalla gola.
Biancaneve si stiracchiò, aprì gli occhi e si mise seduta, fresca e riposata come chi si risveglia da un bel sonnellino. «Dove sono?» chiese sbadigliando e guardandosi intorno stupita.
«Sei con me e, se vuoi, ci resterai tutta la vita perché ti amo e ti farò mia sposa!» disse il principe, pieno di gioia e stupore.
Quel principe era davvero bello e gentile, e Biancaneve accettò la sua proposta.
Alla festa di nozze vennero invitati anche i sette nani, e pure i sovrani del regno vicino che erano, naturalmente, il papà e la matrigna di Biancaneve.
Così, la regina ha indossato il più sontuoso dei suoi abiti, si è fatta pettinare e imbellettare dalle sue ancelle, ha messo una splendida parure di diamanti e poi, come al solito, è venuta a pavoneggiarsi davanti a me, cinguettando:
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
Devo dire che è stata una gran gioia per me poterle rispondere:
«La più bella al castello, regina, sei tu,
ma la sposa novella lo è molto di più!»
Anche sotto la cipria rosa, ho visto affiorare il verde della rabbia.
«Un’altra più bella di me? Non posso crederci, devo vederla!»
E il tono era quello di chi pensa:
‘Devo ucciderla, strozzarla, triturarla, avvelenarla …’
Io avevo detto la verità, e questa volta me l’ero cavata senza svelare che si trattava sempre di Biancaneve. Va bene non mentire, ma in fondo non ero tenuto a esagerare con le informazioni. Lei non mi ha chiesto il nome e io non gliel’ho detto.
Si recò dunque alla festa, rosa dall’invidia e tormentata dalla curiosità. Quale non fu il suo sgomento nel vedere che la sposa altri non era che Biancaneve! La regina restò impietrita, mentre il re correva ad abbracciare la figlia che aveva creduto morta. Ora avrebbe saputo la verità e senz’altro avrebbe fatto uccidere la regina per le sue colpe.
Così la perfida matrigna fuggì e corse così lontano, e corse così tanto, e corse così forte, che infine le scoppiò il cuore in petto e morì.
Biancaneve invece visse felice e contenta, e così finisce la sua storia.
Come? Cosa volete sapere ancora? Sei tu che hai parlato, tu che hai appena letto questa storia? Mi è sembrato di sentire una vocina …
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella di tutto il reame?»
Ah, no, non ricominciamo, per carità! Sai allora cosa ti dico?
«Tu che ti specchi ogni mattina, che tu sia bimbo, oppure bambina, lo so, vorresti sapere se c’è un altro al mondo più bello di te.
Ma no, mi dispiace, io non te lo dico,
non voglio che un altro per te sia nemico,
e dopo ‘sta storia son molto guardingo
e di essere specchio normale io fingo,
perché per davvero mi sono stufato
di fare ancora lo specchio fatato!»